Giovani, non lasciamoli soli
Ogni inizio ha una fine, ogni dritto si accompagna a un rovescio, ogni storia nasce da una pagina bianca. Pensiamo che il nuovo cancelli il vecchio ma è solo un’illusione, perché il filo dei giorni li tiene uno incollato all’altro e, se lo tagli, potresti dover riannodare il gomitolo da capo. Sarebbe un bene o un male? Ce lo chiediamo ogni ultimo giorno dell’anno quando, come dentro un film, passiamo in rassegna quel che è stato, alla ricerca del momento più dolce, della gioia più grande, dell’emozione più sconvolgente. Per poi scoprire che, così, a bruciapelo, nessuno o quasi saprebbe indicare il giorno, l’ora, il minuto da salvare per sempre nell’archivio della memoria. Ci sono, naturalmente, i matrimoni, le nascite dei figli, la guarigione di una persona cara, ma il resto è opinabile o aleatorio come l’impronta sulla sabbia in un giorno di vento. Nel giudizio tutto cambia e si trasforma a seconda dell’unità di misura, dipende se a dominare sono le ragioni del cuore o dell’efficienza. Perché troppo spesso si valuta in funzione del successo apparente, del momento, del modo con cui i nostri occhi vedono le cose. E vorremmo che il bello coincidesse con il nostro bene, che gli altri sapessero trascurare i nostri difetti, che alla lunga le nostre colpe si rivelassero ragioni. Ma spesso non è così, i torti restano responsabilità, le sconfitte rimangono serbatoi di lacrime, le brutte figure non smettono di farci soffrire. A meno che non impariamo a guardare un po’ oltre noi stessi e capiamo dove abita davvero il nostro cuore. Dipende dalla casa che gli costruiamo intorno e a chi diamo la licenza di abitarla. I più saggi, se la fede è anche saggezza, danno le chiavi a Dio. E allora l’anno vecchio sarà stato buono o cattivo a seconda che ci siamo avvicinati o meno alla sua volontà su di noi. Se ce ne siamo allontanati faremo fatica a ritrovare la via e arriviamo all’ultimo giorno degli ultimi dodici mesi con il fiato grosso e le gambe pesanti, desiderosi solo di ripartire da capo. Se invece, ma è difficile, il cammino è stato luminoso, saluteremo l’avvio del 2025 come un semplice passaggio di testimone. Senza strappi dolorosi. “Buona fine e buon inizio” dicevano i nostri vecchi, quasi a sottolineare che tutto si tiene. E anche le cose più dure, se radicate nell’amore, appaiono accettabili. E allora le battute d’arresto diventano scuola di maturità, la povertà del raccolto fiducia che il tempo cambierà, i litigi inviti a compiere un passo indietro, nel senso che farsi piccoli significa diventare grandi. Così dire grazie anche per gli insuccessi, quelli almeno che aiutano a crescere, non è masochismo, ma desiderio di vedere oltre il buio, capacità di scoprire che persino nella notte nera si può intravedere una piccola luce a indicarci il cammino verso casa. Grazie quindi per il lento respiro dei giorni, grazie anche se fatichiamo a trovare un motivo per ringraziare, grazie soprattutto perché ciascuno di noi ha un posto nel cuore del Padre. Ma questa consapevolezza non deve portarci all’arroganza, bensì, al contrario, alla mansuetudine, al perdono, alla solidarietà. D’altronde non è forse vero che la soddisfazione più grande la proviamo quando riusciamo a regalare un momento di gioia agli altri? Beato l’uomo, e beata la donna che non conoscono la solitudine, verrebbe voglia di dire. O meglio, è saggio chi non considera la sua vita come una fortezza da difendere ma sa aprirsi per farsi abitare e usa il metro del perdono come unità di misura. Siamo tutti buoni e cattivi, colpevoli e innocenti, coraggiosi e vili. Con l’umanità come unità di misura. Il giudizio sull’anno vecchio passa da lì. La felicità dei giorni dipende da come e se li abbiamo vissuti insieme agli altri, avvicinandoci o allontanandoci dalla speranza. I giovani, i nostri giovani, si sentono più soli degli anziani. È una solitudine non voluta, tragica, causata in molti casi dalla difficoltà di passare alla vita adulta. Una solitudine che provoca molta sofferenza. I più poveri sono i più soli e coloro che sono soli sono più vulnerabili alle malattie mentali. Non è chiaro se la causa di questa situazione siano i social network e l’uso eccessivo degli schermi. Senza dubbio è necessario lottare contro questa mancanza di compagnia. Il problema è come farlo. Trasformare necessariamente la solitudine in una malattia non sembra la cosa più intelligente da fare. Vogliamo curare i giovani prescrivendo loro tranquillità, investendo più soldi nella sanità preventiva? Ci sono compagnie che possono essere più distruttive del dramma di non riuscire ad avere una vita piena. Diciamo che i nostri Paesi non sono per giovani perché non possono accedere agli alloggi, perché non possono emanciparsi, perché da molto tempo i loro salari sono molto bassi, perché esiste una gerontocrazia istituzionale che impedisce loro di influenzare la vita democratica. Ma al di là delle patologie, questo non sentirsi accompagnati dei nostri giovani, questo desiderio di amore e di pace, andando oltre il disgusto che queste due parole possono suscitare in noi, è una fonte di energia umana senza la quale saremmo morti. Noi adulti che aspiriamo solo alla tranquillità e a non avere dolori fisici non riusciamo a capire che voler essere accompagnati e non trovare risposta è la grande risorsa di un mondo come quello europeo, un mondo stanco e senza forze. Meno male che qualcuno spera che nel 2025 si giunga a un accordo di pace in Ucraina. Un accordo che non sia una resa e che non rinvii il problema della sicurezza. Meno male che qualcuno desidera che finisca la guerra a Gaza che ha causato decine di migliaia di vittime tra i civili e che usa la carestia come arma. Non avremo mai un’umanità sana senza sentirci, senza saperci radicalmente soli e, quindi, radicalmente accompagnati, senza riconoscere che non esiste tranquillità possibile, senza fare nostri l’inquietudine e il dolore straziante che la guerra provoca. Il 2025 sarà un buon anno se ci riporterà alla nostra solitudine primaria, se ci farà vivere salubremente inquieti.
Carlo Cammoranesi















