Editoriali

Quale Europa...olimpionica

Il medagliere delle Olimpiadi è una chiave di lettura del mondo. Dietro le vittorie dei singoli atleti ci sono i Paesi che con investimenti economici, sostegni alle carriere, qualità delle infrastrutture coltivano i loro talenti. Non è un caso che le due principali economie della terra, Stati Uniti e Cina, siano ai primi due posti della classifica. In realtà, guardando bene, si nota un’assenza: l’Unione Europea che, non essendo uno Stato, non risulta nel medagliere ufficiale. Eppure, se sommiamo le medaglie d’oro di tutti i 27 Paesi europei, scopriamo che la Ue doppia abbondantemente le due superpotenze in testa alla classifica. Un risultato che dovrebbe convincerci del valore di quella “Unione” di cui parliamo tanto. Ma che pure rimane in qualche modo sospesa. O comunque non sufficientemente riconosciuta e valorizzata. Non è un caso che questa primazia sia ottenuta nello sport. L’Europa è il continente dove ogni persona è seguita e accompagnata a diventare adulta. È la terra della cura, dove il sistema scolastico è obbligatorio, dove il welfare è universale e dove l’economia sociale di mercato riesce, più che altrove, a trovare un punto di compromesso tra le esigenze della concorrenza e quelle della solidarietà. Sarebbe però ugualmente sbagliato immaginare di vedere attribuite le medaglie direttamente all’Unione Europea, senza rimando alle sue 27 nazioni. Perché ogni singolo Paese è fatto di una storia esemplare, esprime un particolare orgoglio nazionale, si avvantaggia di un’organizzazione istituzionale che ne riflette le specificità. L’Europa non esiste senza i 27 Paesi che la costituiscono. Non c’è senza gli atleti che hanno orgogliosamente sfilato dietro la bandiera del proprio Paese. Perché è proprio questa varietà che costituisce la condizione stessa per pensare l’Europa. Così, in fondo, l’avevano sognata i suoi padri fondatori: l’Europa terra della pace, cioè dell’incontro tra diversi che sanno rispettarsi divenendo uniti pur rimanendo distinti. Unità nella diversità. L’Europa non sarebbe se stessa se si pensasse come un superstato. E tantomeno come una burocrazia centralizzata. O peggio ancora come una tecnocrazia. L’Europa è prima di tutto una civiltà, una storia secolare che si esprime - in una ricerca mai conclusa - in un modello di vita dell’umano. Alla storia europea si può applicare il termine di “rinascenza”. Per dire che, a differenza di altri modelli, l’Europa si è stratificata nelle sue diversità territoriali ricomponendo di continuo la tradizione con il nuovo; chi c’era prima con chi è venuto dopo; rimanendo sempre se stessa eppure cambiando di continuo. Creando così una cultura stratificata e proprio per questa ricca e prospera. Non c’è Europa senza stratificazione storica e senza diversificazione territoriale. È questa una immagine potente per pensare quella forma istituzionale nuova che cerchiamo da più di 70 anni. Una forma istituzionale capace di pensare e fare esistere una sovranità in relazione. Proprio qui, nel Vecchio Continente che mostra tutte le sue rughe e che per alcuni aspetti appare stanco e affaticato, si gioca la partita decisiva del futuro: capire che c’è un bene più grande che ci tiene insieme. E che ci spinge a unirci senza per questo rinunciare a quella diversità che fa la trama meravigliosa delle nostre storie. Ciò richiede un pensiero costituzionale e istituzionale nuovo. Adeguato al XXI secolo, alla sua complessità, alla sua articolazione. Che sa di dover fare un salto in avanti. Senza il quale si faranno solo passi indietro.  L’Europa continua ad avere un ruolo fondamentale nel mondo. E ha a tutte possibilità per continuare a esserlo. A condizione che non dimentichi chi è: il futuro è la capacità di interpretare il passato; il nuovo si avvantaggia dell’esperienza di ciò che è tradizione; e l’unione non cancella la diversità. Questa è ciò che i giochi olimpici e il loro medagliere ci insegnano. L’Europa è fatta di persone, di giovani emergenti e di adulti affermati grazie all’esperienza e alla professionalità. Adesso quindi che il sipario è calato e che, in pochi giorni, delle accese polemiche di queste due settimane sarà svanito anche l’eco (a dimostrazione di quanto fossero estranee all’eredità stessa dei Giochi), è possibile provare a mettere a fuoco una decisiva questione nel tentativo di individuare e tratteggiare il ruolo dell’adulto rispetto alla nuova generazione di giovani adulti. Lo sport non può essere soltanto sacrificio, ma richiede anche un orizzonte e una prospettiva umana che vada oltre la medaglia. Lo sa bene Julio Velasco che, all’età di 72 anni, ha raccolto la guida tecnica delle ragazze della pallavolo con un approccio e una mentalità più da padre che da allenatore. “La pallavolo e il giornalismo – diceva il mister prima delle fasi finali dell’Olimpiade – devono smettere di parlare dell’oro che manca (nella pallavolo), è deleterio per tutti. Si vede sempre quello che manca, è uno sport tutto italiano, l’erba del vicino è sempre più verde. È una filosofia di vita, ma l’oro olimpico quando arriverà, arriverà: ci sono tante squadre forti, si può vincere e si può perdere, l’importante è che i nervi non ci tradiscano”. L’allenatore argentino, naturalizzato italiano, si è più preoccupato di far compagnia all’umanità delle ragazze che di imporre loro un serrato programma di allenamenti. Nella consapevolezza che se una persona sa dove va, allora il resto viene di conseguenza. Nessuno intende prodursi in un peana per Velasco, ma certamente la sua figura è riuscita a riassumere il tipo di adulto di cui i ragazzi – oggi alle Olimpiadi e domani nella vita – hanno bisogno: un’autorità autorevole che non li giudichi, che sappia essere presente senza appesantire la loro strada, ma che – in quella presenza – sappia porre uno sguardo e un’umanità capace di incidere e di restituire ai ragazzi e alle ragazze una nuova consapevolezza. Perché, paradossalmente, è facile vincere a Parigi, ma è molto più difficile fare tutto il cammino che ci porta a diventare veri e liberi. Capaci di assumere il proprio posto nel mondo e di esercitare molte parole che oggi appaiono fuori moda. Una su tutte è la nostra responsabilità. La vera medaglia da conquistare ogni giorno. Anche in un pomeriggio anonimo d’inizio settembre.

Carlo Cammoranesi